sabato 7 aprile 2018

Cinema // Ready Player One

Qualcuno una volta mi ha detto che non tutto il cinema dev'essere cinema d'autore. Non tutto ciò che consumiamo a tavola deve essere caviale, champagne o fragole biologiche coltivate nel tuo orto.
Ready Player One è un film che riempe la pancia con dignità.


Una volta subìto lo spiegone iniziale, la prima mezz'ora l'ho passata a ridere da sola come un'idiota: per chiunque sia nato a cavallo tra gli anni '80 e '90 e sia cresciuto con un accesso a internet - ma anche solo una consolle - le sequenze di gioco virtuale sono una gioia per gli occhi e per la ghiandola della nostalgia che sicuramente stallì da qualche parte, seppellita nel recondito dell'emisfero destro, e che ultimamente sta facendo la fortuna di una Hollywood a corto di idee.

La mia ghiandola della nostalgia secerne tantissimo, ma non mi soffermerei più di tanto su questo aspetto. Al di là del piacere di assistere a un inaspettato ritorno di personaggi dall'aura sacra ("Mecha Godzilla!!" cit.), le sequenze di azione la fanno da padrone su tutto. In particolar modo, c'è una certa corsa che Ben Hur levate e Skywalker torna ad aggiustare droidi. Eviterò di fare il solito commento sul fatto che la trama è un accessorio in questo tipo di prodotto, dato per assodato che la trama in questo caso non splende per originalità o imprevedibilità ma fa il suo lavoro, e spenderò invece due parole sul messaggio del film.


Caro Steven, dire che il mondo reale è l'unico ad essere reale è una gran paraculata. So what? Per chi è cresciuto nel web 2.0, "reale" è tutto ciò che accade nel mondo, compreso quello virtuale. Non confondere il mondo virtuale con quello materiale - ci sarebbe stato. Riscoprire la gioia dell'esistenza materiale - pure. Ma detta così è una boiata pazzesca. Ciò che succede nel mondo virtuale ha delle ripercussioni reali e misurabili nel mondo materiale, basta dire questo per smontarti lo slogan. Vivere nel mondo virtuale potrebbe molto presto essere molto simile a vivere nel mondo reale, ma in ogni caso quello che conta è l'esperienza dell'individuo, e quella è un flusso che non fa distinzioni.

Piuttosto, è proprio Ready Player One a prendere delle scorciatoie che lo allontanano dalla realtà. Un protagonista maschio, bianco, giovane, che al di là della povertà di mezzi e risorse si innalza fino alla rosa dei 5 giocatori più tosti del mondo intero. Occheeei. La donzella spaccatutto online che inaspettatissimamente è una donzella spaccatutto offline, a 10 passi da casa - e pure caruccia - invece di essere un ciccione cinese che si connette dal più squallido internet cafè della profonda provincia cinese. OCCHEEEI.

E dopo tutto il parapiglia per combattere l'azienda di cattivoni che vogliono fare dell'internet un luogo in cui le persone valgono solo da un punto di vista economico (ring a bell?), quale forma di governo migliore che un'oligarchia illuminata?
...
forse una democrazia? Niente, la democrazia è morta anche nell'immaginario comune.

L'unico concetto che ho apprezzato è la contrapposizione tra una concezione della rete basata sul merito, in cui tutti gli utenti hanno in teoria lo stesso peso, e la concezione di una rete basata sulle risorse economiche, in cui chi è ricco ha più potere. Internet è stato creato con la prima concezione in mente, ma la morte della net neutrality è dietro l'angolo. Chissà, magari questo film smuoverà qualche coscienza, quelle coscienze che riusciranno a scostare gli strati di stronzate in cui questo concetto è incartato. No ma comunque il film mi è piaciuto, in verità.

Gioìte miei fedeli 25 lettori, la Procrastinazione ha fatto level up.
Livello esperienza + 1, livello simpatia -1.000.

lunedì 27 ottobre 2014

Cinema - Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan e My Sweet Pepper Land di Hiner Saleem


Winter Sleep è l'ultima palma d'oro di Cannes. Sembra ormai che per vincere a Cannes sia necessario fare un film di almeno 3 ore. Nel caso di La vie d'Adèle ho soprasseduto volentieri sulla durata biblica, perché l'intento realista impone certi tempi, ma nel caso di Winter Sleep sembra piuttosto che il regista turco odi il suo pubblico e lo voglia fare soffrire. Non ho capito se si tratti di un adattamento da un copione teatrale, certo l'impressione è quella: Winter Sleep è un susseguirsi quasi ininterrotto di dialoghi verbosi, in cui il protagonista erge le sue difese retoriche contro ogni attacco al suo stile di vita e alla sua auto-rappresentazione, riuscendo a mettere in scacco la sorella e la moglie.
In sintesi, il film è la storia di un matrimonio alla deriva, quello tra Aydin, attore di mezza età che gestisce un hotel in Cappadocia ereditato dal padre, e Nihal, la giovane moglie annoiata dalla loro vita ritirata. Si aggiunge al quadro la sorella di Aydin, Necla, un personaggio che ha la sua parabola di disillusione nel giro di un'ora e mezza e poi, fortunatamente, sparisce nel nulla.
Questo film non è una facile visione. E' difficile provare simpatia per i personaggi: Aydin è borioso e arrogante, mentre Nihal è lagnosa e irritante. L'unico protagonista amabile è la Cappadocia, con i suoi paesaggi maestosamente spogli che si coprono di neve.

IMDB


 

My Sweet Pepper Land è un film iraniano dell'anno scorso che l'Institut Français ha riporposto alla Cinémathèque ormai un mese fa (ho avuto da fare). Fin dalla prima scena, Hiner Saleem si muove con delicatezza tra il drammatico e il comico, e forse è questo l'aspetto che più mi ha spiazzato di questa pellicola. I temi affrontati sono drammatici: la recente e fragile conquista della legalità in Iran, la posizione della donna nella società tradizionale, i conflitti etnici che riguardano i curdi e il loro triste destino nel Medio Oriente... in un film western. My Sweet Pepperland è un film western molto atipico, in un primo momento si diementica la sua natura western, ma le scene a cavallo, le sparatorie e gli agguati sono lì a testimoniarlo.
La trama gira attorno alle vicende di Baran, eroe di guerra riconvertito al ruolo di sceriffo. Baran non si trova a suo agio nella sua nuova funzione, così dopo un tentativo fallito di dimissioni (molto comico) accetta di trasferirsi in un piccolo villagio tagliato fuori dal mondo, vicino al confine con la Turchia, in cui la legge è ancora quella tribale. L'incontro con Govend, una giovane maestra delle elementari ribelle e determinata, interpretata con grazia dalla bella Golshifteh Farahani, è fin dall'inizio carico di tensione amorosa. Ben presto la giovane, che collabora con le indipendenstiste curde, diventa l'obiettivo del boss criminale, e il nostro eroe dovrà intervenire a colpi di pistola per difendere la donzella.
La narrativa western si sposa a fatica con l'ambientazione contemporanea iraniana, diverte ma non convince e il film è a tratti noioso. L'impressione è che la trama non decolli mai, il risultato è che si apprezzano più le intenzioni del regista che il risultato finale. Certe scene deliziosamente comiche tutto sommato fanno sì che il film rimanga un'esperienza piacevole.

IMDB

domenica 26 ottobre 2014

Gigs - les Nuits Sonores

Ho scritto questo post su un treno da Rabat a Fez, una settimana fa.


Non ho lavorato per les Nuits Sonores, a differenza degli ultimi due festival di Tangeri. Per almeno un paio di buoni motivi. Da una parte perché ho ricevuto la gradita visita di Hana, dall'altra perché non condivido il loro modo di procedere. Les Nuits Sonores è un festival lyonnais, questa è stata la seconda edizione d'esportazione a Tangeri. Lo staff è quasi interamente di Lione. Invadono Tangeri, spendono il loro denaro francese in hotel e ristoranti, colonizzano la città come ai buon vecchi tempi, probabilmente senza operare alcun cambiamento concreto nella distribuzione di competenze e ricchezze.
Un po' mi sono pentita della scelta, perché sarebbe stata un'esperienza interessante. Rimane il problema insormontabile della loro organizzazione idiota: sono arrivati al punto di stampare i programmi in Francia e farseli inviare. In più, il festival era gratuito, ma su invito. Questo significa che era un festival tra amici. Certo, era possibile ritirare gli inviti alla Cinémathèque la veglia degli eventi, ma ci metto una mano sul fuoco che la maggior parte dei presenti avevano avuto i biglietti da amici.
Le mie rimostranze si fermano qua. Forse non ho avuto un'esperienza del festival tale da formarmi un giudizio più articolato. La prima sera, quella dell'inaugurazione, è stata un po' triste. Siamo arrivate verso la fine e non c'era molta gente, anche perché la musica era brutta. L'allestimento del giardino del museo della Kasbah però era molto, molto carino, con quadri e luci colorate strategicamente piazzate.

Il secondo giorno, venerdì, sono cominciati i concerti: in programma c'era una cantante amazigh conosciuta, Hadda Ouakki. La sua esibizione è stata deliziosa. Hadda è una signora di una certa età, circondata da musicisti ugualmente di una certa età, ed è stato strano vedere un pubblico di giovani francesi di fronte a un concerto tradizionale berbero.
Hadda Ouakki
Dopo Hadda, ha suonato un gruppo francese, i Wall of Death. La loro musica ha una chiara impronta di rock progressivo, ma spazia molto nelle sonorità di gruppi storici come Pink Floyd, the Doors e the Beatles. Sì, è piuttosto eterogenea. Però è emozionante. La tastiera e la chitarra si combinano in dei crescendo che poi esplodono, facendo impazzire il pubblico. Ma questo è niente.
Sembrava che il concerto fosse finito, quando un gruppo gnawa, composto da un suonatore di guembri e cantante e un coro che suonava i qraqeb, è salito sul palco. Erano vestiti alla maniera tradizionale gnawa e hanno anche accennato qualche mossa di danza. A quel punto sono comparsi i local, si sono fatti spazio tra i giovani colonizzatori e hanno conquistato la scena. I gnawa e i Wall of Death hanno lanciato il loro incantesimo fusion, facendo esplodere la folla. È stato bellissimo, siamo uscite sudate ed euforiche.
Wall of Death

La sera stessa il festival prevedeva una serata in un locale storico di Tangeri, il Morocco Palace, che di solito è frequentato da prostitute e uomini affamati. È qui che les Nuits Sonores ha realizzato la sua magia: entrando al Morocco Palace, mi è sembrato di entrare in una dimensione parallela in cui finalmente Europa, Africa e Maghreb si incontrano per dare il meglio di sè. Fumo, sudore, musica afro beat (selezione di Mambo Chick) à fond, gente di tante nazionalità che balla, alcuni ballerini provetti, alcuni europei in estasi, era la prima volta che trovato un'atmosfera così libera a Tangeri. Ragazzi e ragazze ballavano assieme senza preoccuparsi delle convenzioni e in giro si vedeva dell'alcool. Il secondo djset è stato ancora più selvaggio: il berlinese Mehmet Aslan mixa la word music alla techno europea in maniera sublime. Impossibile resistere.

Per me la magia delle notti sonore è finita qui, perché sono partita con Hana alla conquista del Marocco, ma questa unica giornata di festival mi ha lasciato incuriosita e entusiasta, nonostante le mie perplessità iniziali. Non posso esprimermi sul festival in generale, che tra l'altro prevedeva anche forum, incontri, proiezioni e dibattiti su temi legati alla scena culturale marocchina (European Lab), ma quello che ho visto mi è bastato per ricredermi. See you next year.

Les Nuits Sonores

lunedì 1 settembre 2014

Cinema – Frontieras di F. Belyazid


Salam aleikoum amici, la mia ultima escursione alla Cinémathèque alla ricerca di wifi mi è fruttata la preziosa informazione che il bar della suddetta è ormai punto di ritrovo per tutti gli stranieri che vivono a Tangeri, oltre che la visione di un film per 20 dirham.
Frontieras affronta la complicata questione del separatismo saharawi da un punto di vista bizzarro: una simpatizzante indipendentista spagnola parte per il sud del Marocco per girare un documentario sul Sahara occidentale. Questo viaggio le frutterà un rivolgimento delle sue preconcezioni e un nuovo amore. 


L'inizio è ambientato principalmente a Laayoune, dove Maité è assistita da un marocchino, che la mette di fronte all'altro lato della medaglia: le interviste che la porta a registrare mostrano che buona parte della popolazione saharawi, soprattutto gli intellettuali e la fascia istruita, è ben felice dell'appartenenza al Marocco e ne apprezza l'operato politico e la recente svolta in termini di diritti umani. In effetti la questione è più complessa di come la faccia questo reportage di Vice: il territorio del Sahara occidentale (e anche la Mauritania) è stato per molti secoli sotto la tutela dei sovrani del Marocco, prima che gli interessi coloniali francesi e spagnoli sconvolgessero la geopolitica di tutto il continente. È appunto il colonialismo, con il supporto dell'Algeria, ad avere creato il movimento indipendentista. Ed è senza dubbio dal senso di colpa post-colonialista che una buona parte degli europei di sinistra deriva la convinzione di dover salvare l'Africa da se stessa (e dalle brutte abitudini apprese dall'uomo bianco). Così Maité, che è scandalizzata da come vivano bene gli amici del suo amico, addirittura ascoltano musica lounge alle feste.
Maité è pronta a gettare la spugna, ma una promessa fatta a un amico la porta a spingersi più a Sud, dove incontra un affascinante ex-combattente del Polisario, attuale presidente di un'ONG che assiste le famiglie povere saharawi. Maité è decisa a seguire quest'ultimo in un viaggio nel deserto. Tra un'oasi, una poesia decantata in arabo, un the nel deserto (non quello di Bowles, per fortuna), una duna e un bebè cammello, dovrà accettare che la realtà non corrisponde alle sue idealizzazioni e che il mondo non è in bianco e nero. I colori del deserto susciteranno in lei un sentimento profondo, che con imbarazzo scambia per attrazione amorosa, ma altro non è che l'amore per il deserto.

Detta così, questo film è una figata. In effetti, dato che il deserto è un'esperienza che mi manca, ma che è in programma, mi sono imbevuta avidamente delle splendide riprese di un pezzo del Marocco che ancora non è stato raggiunto dalla globalizzazione massiccia. Il deserto è magico, la conversione al capitalismo più abbietto meno. In ogni caso, questo film non è una figata: l'attrice protagonista è scarsissima, l'azione è forzata e il film non sembra avere né capo né coda. Molte scene sembrano buttate lì per riempire un'ora e tre quarti, quando ci sarebbe stato così tanto da dire. Ancora una volta, mi rammarico dell'immaturità della cinematografia marocchina. Partendo da un presupposto così intrigante, dotato di così tante sfaccettature, si sarebbero potute fare tante, tante cose. Forse la superficialità del film non è tutta da imputare all'immaturità del regista, perché il film presenta una prospettiva precisa, la prospettiva delle autorità marocchine. Non dico che sia un film di regime, ma va tenuto in conto.

martedì 26 agosto 2014

Libri - Un antropologo su marte, Oliver Sacks


Il titolo mi ha incuriosito alla prima occhiata. Ho trovato questo libro in offerta durante una delle nostre solite incursioni notturne alla Feltrinelli e ho deciso che dovevo averlo. È stato uno dei due libri che mi sono portata in valigia e non me ne pento affatto. Leggerlo è stata un'esperienza mistica. Certo, in Marocco è molto più facile (e cheap) avere esperienze mistiche, ma questo non toglie nulla al merito del lavoro di Oliver Sacks. A un certo punto ho cominciato a dubitare della veridicità dei racconti, ma il dottor Sacks è un neurologo e un professore di prestigio. Le sue osservazioni sono supportate da un'ampio apparato bibliografico e da numerose note di approfondimento.
Questa raccolta ha la peculiarità di suscitare l'interesse sia di chi è già avvezzo ai temi della malattia mentale, sia di chi invece cerca delle storie appassionanti dal punto di vista narrativo. Il dottor Sacks guida il lettore in un viaggio affascinante e terrificante nella mente umana, partendo dai casi limite che ne rivelano la natura più profonda, il tutto con parole chiare e lo spirito investigativo degno di un giallo. Per comprendere la malattia neurologica, il dottor Sacks ritiene che sia indispensabile immergersi nella vita del paziente, osservarlo all'opera in diversi contesti e constatare in che modo il paziente si adatti alla sua malattia. La peculiarità della malattia neurologica è che tocca in profondità l'identità del malato: non si tratta semplicemente di un corpo esterno che aggredisce la persona, ma di una parte di sé, un deficit che diventa parte integrante della vita quotidiana, tanto che è difficile immaginare la propria esistenza a prescindere da questo tratto identitario. 

 

Sette racconti esplorano le esistenze di sette individui, partendo dal pittore che non vedeva i colori, passando per l'uomo guarito dalla cecità che deve imparare a vedere, l'artista rinchiuso nel paesaggio vivido della sua infanzia in un paesino toscano, fino a due casi di autismo peculiari. 
“L'ultimo hippie” è la storia di un uomo che, a causa di un tumore benigno al cervello, perde la vista e la memoria a breve termine, ed è quindi congelato negli anni '60 della sua gioventù. Questo racconto è a tratti molto toccante, come lo è l'ultimo, “Un antropologo su Marte”, la storia di Temple Grandin, una donna autistica di particolare intelligenza. Oltre ad occuparsi della progettazione di impianti per l'allevamento, Temple, il cui autismo le rende impossibile comprendere le emozioni ed avere autentici rapporti affettivi, si sforza di comprendere la sua malattia in maniera molto umana e commovente. Il racconto che mi ha colpito di più è stato “Vita di un chirurgo”, il resoconto di un weekend nella vita del chirurgo tourettiano Carl Bennett. La sindrome di Tourette non corrisponde allo stereotipo delle parolacce urlate in momenti inopportuni, è molto più complessa e affascinante: è come se il nucleo istintivo del cervello fosse iperattivo e mancasse un filtro tra esso e il comportamento cosciente. Ha dell'incredibile quindi che un tourettiano possa essere un chirurgo, e per di più pilotare un aereo.
Tra queste pagine ho trovato qualche risposta alle domande che animano la filosofia della mente, ma in fondo credo siano domande che ci poniamo tutti, persino una persona autistica come Temple Grandin.

lunedì 18 agosto 2014

Gigs - Twiza Festival 2014

Il Twiza è un festival dedicato alla cultura amazigh (i berberi, per intenderci), arrivato alla sua decima edizione. Quest'anno il tema à stato "l'Afrique aux africains". Oltre ai concerti, sempre gratuiti, il festival prevede anche conferenze e incontri volti a valorizzare la partecipazione e lo scambio tra i diversi gruppi etnici. Tangeri è quindi il luogo ideale: città portuale, luogo di scontro, piena di contraddizioni e soprattutto, negli ultimi anni, ai problemi dovuti alla presenza di migranti. La migrazione non parte più dal Maghreb (anzi, i marocchini stanno rientrando), ma dall'Africa subsahariana, ed è appunto questo gruppo, chiamato dai tangerini "les africains" (come se loro fossero un'isola a parte dal continente) a vivere la situazione drammatica della povertà e della discriminazione. La Spagna, ben visibile dalle coste dello stretto, è così vicina che molti tentano qui la traversata. Tra cui i bambini con cui avevamo lavorato fino alla settimana prima dell'inaugurazione.


Primo giorno: inaugurazione
Il festival è iniziato all'Hotel Oumnia Puerto, dove un gruppo di bambini ha presentato la coreografia di danza africana, preparata nel centro culturale dove lavoro. Ogni giorno ho assistito alle prove del giovane insegnante di danza camerunese (che ora si è slogato la spalla e non può più fare i corsi...), solitamente un pezzo di pane, improvvisamente trasformato dalla tensione in un dittatore spietato di fronte ai bambini atterriti. Metà marocchini, metà africani, fino a che la metà africana non ha attraversato lo stretto qualche giorno prima dello spettacolo. Ci siamo arrangiati e il risultato è stato ottimo, nonostante tutte le difficoltà affrontate.

Venerdì:
Dizu Plaatjies è un musicista sudafricano e un artista incredibilmente dotato, oltre ad essere una persona squisita e piena di gioia. Mi ha incontrata un pomeriggio e per lui sono diventata "sister Camilla". Avevo già avuto modo di apprezzare la musica durante le prove aperte al pubblico del mercoledì precedente: nonostante fossero solo delle prove, l'energia sprigionata dal suo gruppo (Ibuyambo) è stata travolgente. Le voci dei sei componenti del gruppo si armonizzano in melodie piene di ritmo, che ti entrano in testa e risuonano per giorni. Gli stumenti, estremamente scenografici, sono quelli della tradizione locale: non saprei nominarli, ma c'erano percussioni di tutti i tipi, xilofoni in legno di grandi dimensioni (marimba?) e quello che ho scoperto chiamarsi kayamba, oltre che a un bellissimo arco con una cassa di risonanza in cocco che che si suona pizzicando il filo. Per il gran concerto il gruppo era in costume tradizionale e ha ballato e animato un palco enorme. Io purtroppo sono arrivata solo all'ultima canzone (il ritardo cronico non è una novità).
Dopo l'esibizione degli Ibuyambo, la musica di Idir mi è parsa soporifera. Idir è estremamente famoso nel Nord Africa e nei paesi di migrazione maghrebina, ed è considerato il padre della musica in lingua cabila (una lingua amazigh). Si è presentato sul palco con la figlia, che gli assomiglia tantissimo, e l'impressione è stata che nell'ora e poco più di concerto lui abbia fatto molto poco, ma è comprensibile: è piuttosto avanti con gli anni, le foto usate dall'organizzazione non sono molto recenti e nel frattempo i suoi capelli sono diventati bianchi. Molta meno energia, molto meno ritmo, canzoni adatte a una festa per bambini o a un dopo-festa per bambini.
Dopo i primi due concerti, è partito un djset tamarrissimo, con tanto di danza kuduro per la gioia della folla, ma non per la mia, che sono scappata prima dell'esibizione dell'ultimo cantante.

Sabato:
Già venerdì ero rimasta impressionata dalle dimensioni del palco principale sulla corniche (gli altri due palchi, che non ho mai visto, erano fuori dalla città, in quartieri difficili che accolgono gli stranieri). Sabato sono rimasta ancora più impressionata dall'incredibile folla, accorsa per Cheb Mami.
Ho saltato di nuovo la prima esibizione e sono arrivata giusto per il concerto di Ismael Lo, la star del festival, un grande musicista senegalese che però non ha incontrato il favore del pubblico, tranne le prime file, quelle riservate al personale del festival, che accoglievano anche un gruppo subsahariano. Sotto il palco l'atmosfera era di festa: più avanti, nel mare di gente, si sentivano fischi e indifferenza. Per chi l'apprezza, comunque, la musica tradizionale di Ismael Lo è un'esplosione di ritmo e una festa per l'orecchie, fatta per ballare e battere le mani in sincronia.
Con Cheb Mami la folla si è risvegliata. La musica raï non fa per me, la trovo lagnosa e molesta, soprattutto per la tastiera altissima. Cheb Mami poi è una persona sgradevole e le voci che girano su di lui lo sono ancora di più. Non sono solo voci, purtroppo: è stato condannato Francia per avere tentato di fare abortire una sua ex-fidanzata, facendola picchiare dai suoi scagnozzi. Ma questo non sconvolge tanto i marocchini. In questo paese lo stupro non è reato se chi lo perpetra acconsente a sposare la vittima. Si parla tanto di diritti delle donne, ma per diritti delle donne generalmente intendono una cosa molto diversa da quella che può intendere qualcuno come me. L'impressione è che per loro le donne abbiano il diritto a essere al sicuro tra le quattro mura della cucina, e poco altro.

Domenica:
Il vento dell'est si è alzato su Tangeri e ha soffiato con violenza tutta la giornata. I tecnici sono stati obbligati a scoprire il palco per evitare che fosse portato via dal vento. I concerti sono stati annullati, ma vista la folla furente qualcosa si doveva far uscire: così è uscito Douzi, quello che tra tutti aveva la scheda tecnica più grossa, dieci pagine di scheda tecnica, e ha canto in playback con un chitarrista che faceva finta di suonare. Tutto questo io l'ho saputo dai racconti degli altri, perché io ero a letto, stremata dalla conferenza sull'agricoltura che abbiamo tenuto la mattina. Gli argomenti erano molto interessanti (bioarchitettura, permacultura, associazioni per la difesa dell'ambiente...), il pubblico scarso. Del resto la domenica mattina, con un'altra conferenza in contemporanea, è difficile aspettarsi altro.

Il proposito del Twiza è nobile e merita attenzione, ma mi chiedo quanto esso sia stato comunicato ai grandi numeri, quanto sia stato compreso e condiviso dalla folla che ha presenziato. L'Africa agli africani è un messaggio che forse ha avuto poca risonanza tra chi non è in grado di adottare una prospettiva globale e riconoscere ciò che accomuna i paesi del continente.

Festival Twiza

giovedì 7 agosto 2014

Cinema – Rock the Casbah di L. Marrakchi


In qualche modo riesco sempre a trasferirmi in una città dotata di cineteca. La Cinémathèque de Tanger ha una programmazione molto più modesta (così come modeste sono le tariffe) delle sue sorelle europee, ma fa già piacere che esista. Quanto a bellezza, però, non c'è paragone: ignorando l'odore di pipì di gatto, che sembra essere il trademark di Tanger, l'allure vintage di questo vecchio cinema/teatro ha subito conquistato il mio cuore.

Questo mese in programmazione c'è Rock the Casbah, una produzione franco-marocchina firmata da Laïla Marrakchi. La trama ruota attorno allo scontro generazionale interno a una famiglia estremamente agiata di Tangeri: in occasione della morte del padre, interpretato da Omar Sharif (che è diventato vecchio, molto molto vecchio), tre sorelle si riuniscono dopo anni. Saranno quindi costrette ad affrontare i fantasmi della famiglia, ovvero il suicidio della sorella maggiore, in seguito all'amore impossibile con il figlio della domestica.

La trama è esattamente quello che appare, una banale storia di famiglia, molto prevedibile. Il gioco di contrasti tra i caratteri delle sorelle, una professoressa molto religiosa, un'attrice trasferitasi a New York e una fatalona ribelle, non decolla mai, né decolla il gioco di contrasti tra la generazione della madre e quella delle figlie. Il film dovrebbe essere un inno alla libertà, ma l'unica libertà che viene celebrata è quella di sacrificarsi per la famiglia: il discorso sui diritti delle donne è appena accennato e sicuramente non approfondito. Il tutto risulta ancora più insulso visto che il Marocco rappresentato è quello della minoranza di marocchini benestanti, quella parte di popolazione che non ha dei veri problemi. Questo è un peccato, come è un peccato che non ci sia una vera e propria riflessione sui rapporti tra la minoranza berbera e la maggioranza araba: la storia della cameriera berbera sarebbe stata probabilmente molto più interessante di quella del resto della famiglia. Quel che invece è interessante è la rappresentazione di un'occasione tipicamente inaccessibile agli occidentali, ovvero un funerale musulmano. Questo e la bellissima scenografia, che rappresenta fedelmente il gusto marocchino per il lusso. Pochi elementi positivi, che non bastano a controbilanciare la fastidiosissima tendenza al melodramma e l'incapacità degli attori. Un'occasione mancata sotto molti aspetti diversi.